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Se lavori nel mondo del marketing o se semplicemente sei un curioso del settore, avrai sicuramente già sentito parlare di Growth Hacking, l’approccio tutto americano che negli ultimi tempi ha conquistato moltissimi strategici della crescita aziendale.

 

Il Marketing ha due anime contrapposte: una perennemente protesa verso le novità, l’avanzamento tecnologico e il modificarsi dei paradigmi con cui si entra in relazione con le persone, e l’altra che invece potremmo definire come la capacità di ascolto e osservazione, abilità che da millenni risponde ancora agli stessi immutati parametri.

Il Growth Hacking è in qualche modo la concretizzazione di questi principi.

Se volessimo riassumere il concetto in una sola parola, io direi decisamente “mindset”.

Perché indipendentemente dalla metodologia che è molto protocollata in termini di asset operativi, quello che distingue un growth hacker da un marketer è sostanzialmente il mindset, ovvero l’approccio mentale su cui imposta le strategie e il suo lavoro.

 

Ma in che senso?

 

Beh, il marketer è sostanzialmente uno studioso teorico. Un marketer bravo è uno che ha arricchito le sue conoscenze in campi diversi e che spazia con destrezza fra economia, comunicazione, psicologia, sociologia, padronanza delle piattaforme digitali. È un professionista in grado di definire teorie sul materiale umano, sui suoi gusti, le sue scelte, i suoi desideri. È una figura che studia il mercato e ne conosce le oscillazioni. È, in definitiva, un esperto di previsioni. Questa grossa competenza nella capacità di stabilire come agiranno classi di consumatori o fette di mercato permette di applicare le proprie predizioni in eccellenti strategie, a volte complesse, a volte lineari, ma che hanno in comune la capacità di guidare i processi di scelta e fidelizzazione di un pubblico verso un’azienda.

 

Questo non è sbagliato, assolutamente, anzi!

 

Il problema è che il materiale umano è imprevedibile. Tutte le scienze umanistiche sono  in balìa dell’imprevedibilità, sempre. Il massimo che possiamo controllare è una probabilità più o meno alta, ma una probabilità, seppur alta, presuppone l’inevitabile rischio del fallimento. E il fallimento, in una mastodontica e dispendiosa strategia, significa una grossa perdita di denaro.

Ecco. È qui che l’approccio mentale del growth hacker viene fuori in tutto il suo potenziale: perché ciò che per il marketing è fallimento, per il growth hacking significa invece preziosa acquisizione di dati in ottica di perfezionamento del tiro a costi ragionevoli.

Così un errore può cambiare volto e diventare una risorsa. Ma come?

Grazie all’high-tempo testing.

Tutto il concetto portante del mindset strategico fonda sul criterio che ogni decisione viene sviluppata a valle della raccolta dati. E anche un fallimento può costituire un dato. Un growth hacker attinge a quante più fonti possibili per raccogliere informazioni utili ad affinare la sua strategia: in particolare impiega tool (ad esempio analytics e google trends per citarne solamente due) ed effettua esperimenti. Non a caso è intorno ai test che ruota l’intero processo di growth hacking, lavoro che convenzionalmente si suddivise in 4 fondamentali fasi:

 

  • analisi dei dati
  • ideazione degli esperimenti
  • prioritizzazione degli esperimenti ideati
  • sperimentazione vera e propria


I test, in questa disciplina, seguono esattamente il metodo scientifico, ovvero devono essere:

  • misurabili
  • ripetibili
  • scalabili

Se effettuati con metodologia e criterio, gli esperimenti possono davvero rivoluzionare il tuo business. Ad esempio, hai mai provato ad applicare l’A/B test prima di prendere una decisione strategica? Oppure per capire se funziona meglio un contenuto Long-form o short-form ? O un tone of voice rispetto ad un altro? 

 

Si tratta di una tipologia di esperimento in cui ci si rivolge direttamente ai consumer, sviluppando delle campagne differenziate di breve durata, strutturando una strategia basata sui contenuti e sul valore (dai 15 giorni al massimo di un mese), e si testano la resa, il tasso di engagement, le visualizzazioni e molto altro. Alla fine, la formula che avrà ricevuto maggiore risposta fornirà dati circa l’aspettativa della nostra audience e ci permetterà di perfezionare la nostra strategia in modo talmente raffinato da produrre un tasso di conversione altissimo, perché costruita su misura dell’interesse del nostro pubblico. In quest’ottica non esiste un test che fallisce, perché anche la formula che sarà risultata meno efficace ci avrà permesso di raccogliere dati preziosi, per di più ad un costo ragionevole dato che non avremo investito tutte le nostre risorse in un’unica soluzione.

 

Del resto probabilmente già sai che per chiunque gestisca un business è fondamentale tenere sotto controllo il proprio bilancio. In particolare, qualunque sia l’operazione di marketing che stai effettuando, ci sono due indicatori da cui il tuo lavoro non può assolutamente prescindere: il costo contatto, ovvero il totale della spesa diviso per il numero di lead acquisiti, e il calcolo delle entrate derivate dai lead convertiti in clienti dalla strategia di vendita. È da questo risultato che possiamo ricavare un’idea precisa della validità degli investimenti in termini di marketing e risorse per l’acquisizione e conversione di nuovi lead.

E questo ci porta direttamente ad un altro punto: il raffronto dei dati. Troppo spesso i dati vengono letti dalla prospettiva sbagliata. Engagement (le interazioni) Awareness (la conoscenza del brand),  vendite/conversioni sono tutti dati che forniscono informazioni utilissime ma solo se contestualizzate adeguatamente. Proviamo insieme a capire come.

 

Innanzitutto ogni dato raccolto deve essere raffrontato per avere valore. Ad esempio: un cliente con 60.000 follower che vende 100 prodotti al mese dal suo store, capisce che ha una discreta awareness ma una pessima conversione. Da questo si deduce che bisogna risalire la catena della customer journey e capire dove si interrompe il flusso, perché con questi dati risulta un tasso di conversione dello 0,006%, e quindi è inutile tentare di aumentare i lead e le vanity metrics anziché puntare tutto sul attivare chi ha mostrato interesse, a volte anche col Retargeting, ma prima di qualsiasi altra azione, puntare a capire perché quei 60.000 non acquistano. Cosa li trattiene? La UX? Il brand li ha attratti ma il copy non portava alla vendita? Cosa dicono le recensioni? Qual è il sentiment?

E questo solo per fare un esempio. Il tempo dei numeri sensazionali e nessuna attenzione alle vendite per fortuna è durato abbastanza poco, quanto bastava per disintossicare gli utenti dal fenomeno social.

 

Certo, a un bravo growth hacker i numeri interessano eccome. Ma sceglie a quali dare priorità considerando in quale fase del funnel si trova e che tipo di informazione gli occorre dedurre per la definizione della sua strategia in quel determinato momento. In base a questi indicatori puoi scegliere di misurare:

Net Promoter Score (NPS) – la probabilità che i tuoi utenti consiglino il tuo prodotto/servizio ad un amico;

Engagement – il livello di interazione degli utenti con il tuo prodotto; 

utenti paganti – gli utenti disposti a pagare per comprare il tuo prodotto/servizio;

Base utenti organica – utenti di cui ottieni l’attenzione esclusivamente grazie al passaparola, senza investire in marketing e pubblicità;

Customer Lifetime Value – il valore prospettico di un cliente durante l’intera durata della sua relazione con l’azienda;

Churn Rate – la percentuale di clienti che hai perso

Bounce Rate, Time On Site, Pages Per Visit, Returning Visitors – in estrema sintesi, indicatori che ti permettono di testare l’interesse dei tuoi visitatori analizzando il loro comportamento rispetto al tuo sito web. Questo aspetto è molto importante, è la giocano la misura in cui  è sicuro il sito ed eventuali certificazioni; normative a tutela dei minori, sistemi di pagamento, la velocità di caricanento;  l'attenzione alla User Exerience che può essere migliorata costantemente grazie alle heatmap.

 

L’esistenza di queste e di un’infinita quantità di altre possibili metriche, dimostra quanto oggi sia fondamentale nel marketing “ascoltare” gli utenti imparando a leggerne le esigenze. È per questo che bisognerebbe - servendosi degli strumenti adatti - seguire il percorso di ogni lead dal momento in cui entra in contatto con un brand fin quando non lascia una recensione, e anche dopo possibilmente. È questo quello a cui mi riferivo quando prima ti accennavo alla custormer journey, ricordi? 

 

Nel mondo del growth hacking questo processo diviso per fasi prende il nome di Il funnel dei Pirati, perchè le iniziali dei vari momenti che lo compongono richiamano l’espressione dei pirati nell’immaginario parodistico e filmico, “AAARRR”. La sequenza fu definita dall’imprenditore Dave McClure, co-founder di 500 Startups

Ma cosa significa nel dettaglio “AAARRR”?

 

  1. Awareness
  2. Acquisition
  3. Activation
  4. Retention
  5. Revenue
  6. Referral

 

Chiaramente la prima fase è l’awareness: ovvero far conoscere il proprio brand a un alto numero di persone attraverso strategie di marketing digitale e analogico, social media management, gestione Hashtag, campagne e sponsorizzazioni, mirate alla pura e semplice diffusione del marchio. 

 

Segue una fase di acquisition, ovvero il momento in cui i prospect entrano in contatto col brand diventando lead, ad esempio andando sul sito, mettendo like alla pagina e così via. Da quel momento, quei contatti, avendo mostrato una prima fase di attenzione verso il brand saranno il pubblico su cui concentrarsi per la conversione, perché partiamo dalla garanzia di un interesse iniziale seppur ancora superficiale. In questa fase ci si avvale di strumenti quali SEO, SEM, social advertising, ma anche di canali tradizionali come telefono e tv.

Per una buona strategia di acquisition è fondamentale avere un brand forte, ben strutturato, accattivante, con un tone of voice caratteristico, coerente e riconoscibile.

 

La terza “A” del funnel dei pirati corrisponde all’activation. Questa fase è importantissima perché aver catturato l’interesse di qualcuno non equivale ad averlo conquistato. Un semplice esempio può esserci dato dal nostro cellulare: quante app scarichiamo ma non usiamo? Se non vogliamo che il nostro prodotto/servizio diventi come l’ultima delle applicazioni nascoste nei meandri della memoria del nostro smartphone, allora dobbiamo far “muovere” i nostri potenziali clienti, ad esempio attraverso il nostro sito, in modo tale che abbiano la possibilità di vedere quello che vendiamo e facciamo. Questa fase non è da confondere con la revenue, che vedremo da qui a poco.

 

La quarta fase, la retention, non è meno importante poiché è quella che ci permetterà di produrre utili nel lungo periodo. Una persona che usa una sola volta il nostro servizio è sì un cliente, ma non un buon cliente, lo sarebbe se tornasse ad usarlo. Le metriche da tenere sott’occhio in questo caso sono le sessioni, gli utenti di ritorno, il “Churn Rate”, vale a dire il tasso di abbandono nell’utilizzo di un sito/servizio, il “Daily Active Users” e il “Monthly Active Users”, ovvero gli utenti attivi giornalmente o mensilmente. Il nostro scopo, quando attuiamo una strategia di retention, è fare in modo che il cliente sia spinto a tornare, creando un rapporto di fidelizzazione fondamentale anche per le altre fasi del funnel, in particolare quella di referrall.

 

Entrare in un sito o compiere azioni su un’app, però, non ci permette di monetizzare, per farlo si deve arrivare alla revenue. In questa fase, oltre alla semplice attivazione, che abbiamo visto in precedenza, il cliente andrà ad eseguire acquisti. Una delle metriche da tenere d’occhio è il Costo per Acquisizione (C.p.a.), vale a dire quanto ci è costato portare una persona a compiere un acquisto sul nostro sito, sia esso un e-commerce, o un social che permette di gestire vetrine di vendita, o altre piattaforme come Google Merchant Center, shopify, e così via. Se tale valore sarà inferiore a quello che la persona ha speso, la nostra strategia starà andando bene, se invece sarà superiore alla spesa dovremo rivedere alcune cose. 

 

Per ultima, ma solo per questioni di ordine, citiamo la fase della “Referral”, forse la più importante, perché potrebbe permetterci di incrementare i nostri guadagni senza investire altro denaro in una nuova strategia di marketing. In questa fase l’utente che abbiamo acquisito, a cui abbiamo fatto compiere azioni sul nostro sito/app, a cui abbiamo fatto fare un acquisto e che siamo riusciti a far ritornare sul nostro sito/app più di una volta è diventato un nostro ambassador. Ha cioè iniziato spontaneamente a pubblicizzare gratuitamente il nostro prodotto/servizio, contribuendo alla crescita della awareness del nostro brand. Non male, no?

 

Eppure a un growth hacker non basta saper costruire buone strategie di marketing per garantirsi risultati efficaci. Prima di ragionare su funnel, siti, app, social sponsorizzate, e così via, occorre lavorare sul Product Market Fit. 

 

Cos’è?

 

Lo fa sapientemente capire Sean Ellis suggerendo di chiedere ai propri clienti come si sentirebbero se non potessero più avere accesso a un certo prodotto o servizio. Se almeno il 40% dei clienti dichiara che si sentirebbe molto deluso dalla perdita di quello che gli stai offrendo, allora c’è il PMF, che in parole semplici potremmo definire come l’accordo tra il tuo prodotto e il mercato.

 

Ma se non riesci a raggiungere il tuo 40%?
Beh, tranquillo, non significa che devi lasciar perdere.

Se hai avuto almeno una piccola percentuale di “Molto Deluso”, è il momento di scavare e diventare indiscreti, qualità - sì, hai letto bene - indispensabile per chiunque voglia fare growth hacking! Contatta gli utenti appartenenti a quel piccolo segmento che ha dimostrato di tenere a quel prodotto/servizio, ed esplorane insieme a loro i pregi e i difetti.

Succesivamente utilizza quei dati per individuare la traction, ovvero la validazione del tuo prodotto, cioè la prova che qualcuno vuole comprare quel prodotto o servizio.

 

Lo step successivo consisterà nel provare a visualizzare il futuro della tua organizzazione. Perché non basta che esista un bisogno nel pubblico e che la tua idea sembri rispondervi perfettamente: occorre anche la tua azienda abbia obiettivi chiari e specifici da perseguire per capire in che modo potrà crescere e piazzarsi sul mercato rispetto ad eventuali competitors.

 

Come risultato di questo percorso si otterrà una strada ben definita per le prossime azioni da compiere, ed un nuovo “Sean Ellis Test” da pianificare alla fine di queste.

 

Ma a proposito di Sean Ellis, lo sai che è proprio lui l’ideatore dell’espressione “Growth Hacking”?

 

Lui lo definisce come “un processo di rapida sperimentazione attraverso una serie di canali di marketing per individuare i modi più efficaci per far crescere un business". Poche parole per spiegare un approccio complesso, in cui ogni azione deve rispondere ai requisiti di creatività, ripetibilità, scalabilità, rapidità.

 

Cosa cambia, però, rispetto a come normalmente si struttura un processo di vendita?

Il growth hacking, oltre a tenere conto dei dati come abbiamo già detto, ha il grande merito di mettere al centro il cliente e di avvalersi di strategie sociali ben congegnate.

 

Una strategia di vendita, in quest’ottica, si struttura sempre ragionando sulle diverse tipologie di acquirenti: i primi a comprare generalmente sono gli innovators, ovvero quelli ossessionati dalle innovazioni, che attendono le nuove proposte di mercato e le acquistano il prima possibile, senza che siano necessarie particolari strategie di marketing per convincerli. In genere corrispondono a una percentuale compresa fra il 2% e il 3% degli acquirenti totali. Subito dopo fanno capolino sul mercato gli early adopter, una vera panacea per i marketers dal momento che oltre a rappresentare solitamente una fetta più ampia rispetto agli innovatori, hanno soprattutto il vantaggio di essere considerati influenti. Questo li rende fondamentali in una strategia di vendita, perché il loro entusiasmo pionieristico, le loro referenze, recensioni e commenti fungono da social proof per i futuri acquirenti; inoltre danno indicazioni fondamentali per confermare il product market fit o suggerire delle modifiche.

Generalmente la early majority, ossia quella fascia di acquirenti che investe relativamente presto in un nuovo prodotto, e la late majority, formata invece da chi prima di lanciarsi aspetta di essere certo dell’efficacia e dell’utilità dell’acquisto, sono sostanzialmente equivalenti e formano insieme il 70% degli acquirenti totali.

I restanti sono i ritardatari, coloro che effettuano l’acquisto solo alla fine, e spesso perché costretti dal mercato e dalla società.

 

Tenendo presente questa divisione dell’audience di mercato rispetto a un’azienda, la migliore strategia di lancio possibile è quella di dividere la vendita in 4 fasi: Pre-Pre Lancio; Pre Lancio, Lancio, Post Lancio.

 

La prima consiste in un lavoro di awareness puro e semplice: farsi conoscere, o rispolverare i lead di un’azienda con una strategia accattivante, che magari apra la strada al desiderio rispetto a quello che ci stiamo preparando a lanciare. Questo crea aspettativa e curiosità e mette in allerta innovators e early adopters. La seconda fase, cruciale, è quella del pre-lancio: consigliato della durata di almeno un mese, è un momento di fervida comunicazione relativa al prodotto o servizio. Si parla tantissimo del prodotto, dei suoi vantaggi e ancor di più si parlerà delle modalità di accesso alla vendita, quindi questo è un ottimo momento per raccogliere contatti, avviare funnel e segmentare l’audience.

La vendita. Finalmente il momento clou di un lancio! Ovviamente in questa fase molti fanno uso delle leve di Urgency e Scarcity, limitando l’accesso alla vendita a un tempo determinato. Spesso il compromesso migliore è 72 ore. Durante questo tempo, Innovator e Early Adopter saranno cruciali: sono quelli che acquisteranno il primo giorno, e che dobbiamo coccolare e spronare a recensire. Sono loro lo zoccolo duro che fungerà da social proof per spronare early majority all’acquisto!  L’ultimo giorno sarà tutto dedicato alla late majority: comunicazione incalzante e puntata su Urgency e Scarcity. Decisamente la fase più calda del lancio.


E poi?

La verità è che il marketing non funziona se ragioni sulla scia del “prendi i soldi e scappa”. Il marketing, oggi, è la costruzione di relazioni di valore e a lungo termine. Fidelizzare un cliente è di gran lunga più conveniente che macinarne sempre di nuovi ed è per questo che l’ultima fase, il post- lancio, da molti viene ritenuta la più importante.

Una fase innanzitutto di decompressione. Calmiamo i toni, e torniamo a cementare il rapporto. A dare valore. A dare importanza a quell’utente che non ha acquistato ma che ha mostrato interesse entrando nel funnel, e ancora di più a quell’utente che è diventato cliente. Entrambi hanno dato prova di interesse verso l’azienda  e sono la risorsa più importante su cui strutturare le strategie di marketing future: il primo, con l’obiettivo di condurlo all’acquisto, il secondo in ottica si upselling o cross-selling.

Da adesso il lavoro si rafforzerà rispetto all’ascolto e vanterà una importante mole di dati personali su cui elaborare nuovi test ed esperimenti.

 

Messo in questi termini il growth hacking è molto simile al concetto di start up, tant’è che con quest’ultima ha in comune diversi aspetti. Tuttavia, gode di altre caratteristiche proprie e più specifiche che a questo punto, anche per avere una sintesi chiara e lineare del discorso, è bene (ri)sottolineare:

  • è rapido e veloce;
  • si serve della sperimentazione;
  • è pratico e concreto;
  • è snello;
  • si basa su obiettivi concreti e misurabili;
  • necessita di test e di dati da analizzare;
  • ottimizza gli strumenti a disposizione e le loro funzionalità;
  • abbatte i costi.

 

Tutti gli aspetti appena elencati, se messi insieme, rendono perfettamente l’idea di quanto sia vasta la gamma di profili e progetti per i quali il growth hacking può davvero rappresentare il punto di svolta.

Da un lato le grandi aziende, convenzionalmente abituate ad investire nel marketing ingenti cifre per campagne a volte anche parecchio rischiose e in grado di mettere in serio pericolo la reputazione del brand, trovano nell’approccio ideato da Sean Ellis un metodo sicuro in cui ogni investimento è valutato per ottenere il massimo beneficio in termini di dati da riutilizzare e di fatturato. 


Allo stesso tempo, il growth hacking si adatta a idee imprenditoriali ancora in fase embrionale, come i progetti lanciati dalle start up. 

Queste ultime rappresentano il cliente perfetto perché sono chiamate a crescere di almeno il 200% all’anno. Inoltre, non disponendo di grosse somme di denaro, avvertono con maggiore pressione la necessità di investire in modo mirato. Per loro, come per le grandi aziende, la sperimentazione continua messa in atto da un bravo growth hacker non può che costituire la garanzia per una necessaria crescita degli introiti. E a proposito, qui forse è il caso di dedicare qualche riga anche al metodo Lean Startup. Ne hai mai sentito parlare?

Strettamente connesso con il growth hacking stesso, si tratta di un protocollo per far decollare progetti e attività innovativi, sia in seno ad aziende solide che partendo da 0. L’approccio consiste nel ridurre tempi e costi per raggiungere subito un business sostenibile. Trova radici nel 2008, quando Eric Ries introduce il concetto di ideazione-verifica-modifica continuo, basandosi principalmente sul web, con l’obiettivo di cucire su misura il prodotto/servizio in base alle esigenze del consumatore, passo dopo passo. Questo approccio trasforma il modo in cui i nuovi prodotti sono costruiti e lanciati e garantisce maggior innovazione, meno spese e perdite di tempo, così da ottenere una maggior probabilità di successo.

 

Stabilito come lavora un growth hacker, cosa fa un growth hacker e chi ha bisogno di un growth hacker, non resta che rispondere alla domanda delle domande: chi è un growth hacker?

Un buon growth hacker è una persona che ha competenze trasversali,che gli consentono di avere una visione ampia e un approccio verticale sulla crescita del business. Sono diverse le branche del marketing da cui attinge le sue competenze: si va dalla User Experience ai fondamenti di Seo e Sem, passando per il Direct Email Marketing e l’Advertising, senza dimenticare copy-writing, social media managing e project management. Praticamente, un buon growth hacker deve essere un multipotenziale. Growth hacking significa letteralmente “espediente”, “trucco finalizzato alla crescita”. E per quanto la traduzione italiana non gli renda giustizia, un hack è a tutti gli effetti un’idea che si colloca fuori dagli schemi, una “trovata” che permette ad un’azienda di decollare. Per questo la trasversalità delle competenze spesso è necessaria per allenare la capacità del pensiero “out of box”, fuori dalla scatola.

È anche un professionista che si avvale di tutti i tool possibili per efficientare e ottimizzare la resa e il tempo del suo lavoro, e che si impegna quotidianamente per ascoltare il mercato e le sue evoluzioni, sia umane che tecnologiche. Che conosce i nuovi mezzi e segue il mondo che cambia.

Non a caso, nel settore, i growth hackers vengono affettuosamente definiti “unicorni”, proprio perché esemplari speciali, rari quanto prodigiosi. 

 

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